giovedì 6 febbraio 2020

Un giorno papà mi raccontò che il suo barbiere mi vide giocare a calcio e gli confidò di essersi meravigliato per quanto fossi bravo; il pallone che mi fu regalato in quegli anni, però, aveva la forma di una fisarmonica da suonare e non da calciare, perché in casa mia la musica era molto più importante di quell'inutile sport che però io amavo alla follia.
Mi comprò un paio di scarpe marroni, ovviamente di un numero più grande del mio piede per il timore che crescesse troppo in fretta, simili a quelle che andavano di moda in quegli anni.
Avevano fori laterali e lacci di cuoio che alternativamente si infilavano a serpentina.
Quelle originali le aveva prima disegnate e poi prodotte la Timberland, ma a me era toccata la loro migliore imitazione, quella più riuscita dell’intero secolo: le Lumberjack.

La acquistammo da “Ciro Calzature”, un napoletano DOC che con le scarpe costruì la sua fortuna nel capoluogo lucano in quegli anni.
Papà mi vietò di giocarci a calcio in oratorio perché sarebbero dovute durare per un periodo lungo, talmente lungo da non potere essere svelato nel rispetto paterno.
Decisi di guardare dal bordo del campo le battaglie dei miei compagni di giochi; fino al giorno prima dell’acquisto mi spaccavo anch'io con loro per interi pomeriggi sull'asfalto di quel cortile, ma da lì in avanti le cose cambiarono.

Vista la mia delicata condizione, tutti insieme decisero che sarei stato il prescelto
a calciare i rigori, sia per una squadra che per l’altra.
Seduto su quella panchina da parco giochi, non aspettavo che il rumore di qualche stecca data da difensore assassino nelle due aree di rigore, per poter entrare in campo e calciare col piattone delle mie Lumberjack marroni nell'
angolino basso di quelle porte segnate da due sassi al posto dei pali.

La piazzavo rasoterra perché, semmai avessi deciso di alzarla, sarebbero nate le solite discussioni dovute all'era dentro, all'era fuori, oppure all'era troppo alta, a causa di una maledetta traversa fantasma che non c’era mai.
Ero un rigorista d’oro, non ne sbagliavo uno e, alla gioia di concludere a rete, preferivo la successiva esultanza che ne scaturiva; il mio viaggio di ritorno verso il centrocampo era sempre condito da un ottimismo che marcava il tempo e garantiva la speranza di segnare ancora.
Le scarpe tornavano a casa la sera intatte, superando l’inevitabile ispezione ed il rigido controllo di usura e qualità eseguito minuziosamente dal boss delle calzature.
Mi addormentavo felice sognando le stecche del giorno dopo perché, nonostante la mia giovane vita calcistica fosse reclusa in un’area ristretta, riusciva ad emozionarmi quotidianamente come
se stessi giocando i miei mondiali.

#unanottealcentralino




meraklidikos@gmail.com

Nessun commento:

Posta un commento