venerdì 18 dicembre 2020

La storia insegna agli uomini solo se gli uomini la studiano veramente, un po' come quando eravamo più giovani e frequentavamo la scuola.
Il professore andava alla lavagna e col gessetto cominciava a disegnare figure astratte che capiva solo lui o, peggio ancora, sviluppava formule matematiche incomprensibili ed interminabili.
Tutto sembrava inutile e superfluo, fino a quando non tornavamo a casa a studiarle per riuscire finalmente a concluderle.
Magari capitava di farle talmente nostre che il giorno dopo speravamo persino di essere interrogati.
E oggi? Chi di noi è veramente pronto a dare le risposte giuste a ciò che sta capitando?
Quanti e quali sono i libri di storia da studiare, i disegni da interpretare e le formule da capire?
Siamo aule di ebeti incantati dagli eventi, reclusi in classi chiuse a chiave che non ci permettono di tornare a casa, tutti in balia di saccenti oratori che parlano, parlano, parlano e parlano.
Ci addormentiamo sui banchi senza rotelle, appoggiati con le nostre teste pensierose sulle braccia distese trasformate in cuscini.
Ci risvegliamo infreddoliti e immobili sperando che la campanella anticipi qualche materia nuova da studiare, ma la musica è sempre la stessa: numeri che aumentano, colori che cambiano e voti che bocciano.
Siamo proprio una classe di somari, incapaci di reagire, rassegnati al palinsesto e sedati dall'ignoranza.
Ci hanno fatto dimenticare quanto era bello vivere, quanto era dolce e gustoso passeggiare e quanto era salutare alimentare le menti rispettando la regolarità dei nostri tempi.
Oggi viviamo aspettando l'ora d'aria, come fossimo detenuti, reclusi e rei per non aver rispettato le leggi imposte da chi la storia non la scriverà mai.
Non siamo più in grado di riconoscere la bellezza di un'alba, l'emozione di un tramonto, il terapeutico silenzio delle notti e l'accattivante frastuono dell'ordinarietà del giorno.
Mi piacerebbe che tutti fossimo già arrivati al capolinea per scendere dal tram del pessimismo.
Ricominciare a camminare verso le nostre piazze vissute, quelle piene di disegni astratti trasformati in abbracci, liberi da queste sporche ma obbligatorie mascherine che ostruiscono i sapori più buoni.
Sono stanco, stufo, esausto.
Vorrei reggere più di quanto non abbia fatto finora, ma sogno l'estate, la fine della scuola, una maturità sociale che però vedo ancora lontana.
Ho tanto da vivere e a questo punto è l'unica cosa che veramente desidero.
Il destino mi interroghi pure: sono pronto ad andare alla lavagna per guadagnarmi almeno la sufficienza.




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domenica 6 dicembre 2020

Per questa volta voglio chiamarti Alice: quel formale "Dottoressa Rolando" mi sta proprio stretto.
Voglio darti del tu, disinteressandomi di ogni protocollo imposto dalle regole.
Questa sì che sarebbe una scelta pericolosa, un'iniziativa da giustificare entro dieci giorni dalla notifica.
Rischierei un ammonimento orale o, peggio ancora, un richiamo scritto.
Una pena pecuniaria, una sospensione, una destituzione.
Dici di no?
Fidati Alice: a questo punto tutto è possibile.
Per fortuna esiste ancora una lama sottile messa lì, arrugginita ma ancora efficace a dividere una sanzione disciplinare da un avviso di garanzia, un filo radente che taglia in due il legale e l'illegale, il previsto e l'imprevisto, il fuoco dell'infamia inaspettata spento dall'acqua del riscontro oggettivo.
Questo siamo, cara Alice.
Viviamo tutti nel paese delle meraviglie.
Tu non sei l'unica residente di questo mondo ingiusto, figlio della legalità e orfano della magistratura.
Siamo tutti cugini fedeli dei codici ma nemici incolpevoli dei preposti al rispetto che gli si deve.
Ricordo il nostro pellegrinaggio alla Sagra di San Michele, l'arcangelo che dovrebbe proteggerci dal male.
Quell'adunata notturna al Reparto Mobile, il nostro cappellano, pochi temerari e via, a piedi fino in cima al paradiso per chiedere al nostro protettore di difenderci sempre, non solo dai coltelli affilati, dalle bottiglie rotte o dai proiettili vaganti, ma anche da notifiche sconce, da avvisi tutt'altro che garantisti e da citazioni prive di significato.
La storia si ripete, libri nati al contrario, prima letti e poi scritti.
Quando finiranno di volerci male?
Tutti abbiamo goduto dei frutti raccolti a seguito del tuo operato, sempre volto a salvaguardare la legalità di una città bisognosa di pulizia.
Minuzioso ed attento, sempre pianificato nel rispetto delle regole e con la giusta parsimonia.
Fidarsi dei propri uomini è un dovere: avere la certezza di aver fatto bene non lo è.
Quante grosse responsabilità bisogna considerare quando si decide di garantire la sicurezza, e quanti campanelli d'allarme bisognerebbe sentire suonare prima che tutta l'orchestra componga un classico della nostra storia.
Sono questi i momenti dentro cui bisognerebbe perdersi nell'orgoglio dell'appartenenza, e non nelle sfilate annuali delle Feste della Polizia, quelle utili solamente a farsi appuntare una medaglia o un nastrino sulla divisa.
Forse quando lo capiremo sarà troppo tardi, ed è per questo che urge ricordarlo subito.
Alice, io sto con te, e con me ci sono tanti colleghi giusti che fino in fondo hanno capito come gira questo nostro paese delle meraviglie, che purtroppo oggi ti tocca rivisitare.
Non è solo il tuo, ma, come detto, è di tutti noi uomini in divisa, e in momenti come questo diventa veramente difficile volergli bene.
Sono certo che presto arriverà di nuovo un pullman dell'amministrazione a prenderci per riportarci a casa, e dopo tanta fatica tornerà per tutti il meritato riposo.
Il tempo racconti il miglior finale, uno di quelli emozionanti dentro cui i giusti sorridino e i farabutti vengano reclusi.
Alice: io sto con te.




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sabato 28 novembre 2020

Cara pelle.
Ho pianto per diversi giorni, di notte e di nascosto, perché non riesco più a dormire.
Ho avuto un incidente, uno di quelli brutti, uno di quelli col botto.
Voglio raccontarti come mi sento, come sto vivendo queste ore e quanto mi pesa lasciarle trascorrere con il fastidio di un colpo di frusta inaspettato al collo.
Sarebbe stato meglio ricevere una pugnalata dietro la schiena: a quella siamo un po' tutti abituati.
Forse te ne parlo solamente per curarmi, per medicarmi, per accelerare quanto prima la fuoriuscita da questo senso di vuoto che mi porto dentro.
Sai bene che per anni ho studiato le dinamiche dei sinistri stradali, le cause di questi eventi e lo sviluppo dei crash test che ne conseguono.
Da allievo prima e da istruttore dopo, da formatore in aula e responsabile in pista.
Ho invitato tanti corsisti a credere nel proprio istinto, ad imparare a riconoscere il pericolo per essere in grado di evitarlo in tempo ed eventualmente affrontarlo, solo se non ci fosse proprio via d'uscita.
Riconoscere.
Evitare.
Affrontare.
La guida sicura, la guida sportiva, la guida agonistica, la guida militare.
Ho decantato al mondo di conoscere in maniera impeccabile i sistemi di sicurezza di tutte le auto, quelli attivi e quelli passivi.
Ho insegnato a tanti giovani freschi di patente ad utilizzarli con responsabilità, invitandoli ad amarli più dei cerchi in lega, dei fendinebbia e degli interni in pelle.
Per anni ho raccontato la mia passione per i motori, l'idea di aver sempre desiderato di poter lavorare dentro il loro mondo e la mia soddisfazione nel contribuire a diffondere la cultura della sicurezza stradale tra i più giovani.
Ho condito di presunzione la mia capacità di saper gestire le emozioni in pista, su strada al limite di ogni aderenza, persa o riconquistata.
Stasera però sono spento, perché questa volta è capitato a me, sono stato io il protagonista della fatalità a cui non è stata data la precedenza.
Ho tolto le chiavi da ogni quadro, perché mi sono accorto di non volere più bene a quel mondo, anzi, quasi lo odio.
Mi spaventa e non voglio che mi appartenga più.
L'altra mattina stavo soffocando respirando strani gas che sembravano polvere.
L'esplosione degli airbag ha riempito l'abitacolo della mia macchina e quando ho riaperto gli occhi ho imprecato contro ogni cosa. 
Da via Villa della Regina mi sono ritrovato a girare su corso Moncalieri, come se qualcuno mi avesse regalato un biglietto per girare attorno a me stesso dentro una giostra pericolosa.
Non vedevo più piazza Vittorio, ma la Gran Madre, con le sue luci accese a rappresentare un presepe dentro cui era difficile individuare qualsiasi grotta.
Non ricordo più nulla, solo tutti i semafori spenti.
Il tram alla mia sinistra e poi il vuoto: una Volvo, un proiettile che fino a qualche istante prima che mi colpisse in pieno, consideravo la prossima macchina da acquistare, perché più sicura e tosta di tutte le altre.
Il campanello del 13 che suonava, quasi a volermi avvisare che quell'astronave venuta dal nulla non avrebbe fatto più in tempo ad arrestarsi.
La mia Juke aveva due mesi, era una lattante coccolata e gelosamente custodita.
Un sogno ancora da pagare, un desiderio da portare in giro per il mondo, una favola nuova da scrivere dopo che la vita mi aveva quasi obbligato a privarmi di una regina più grande troppo proibitiva da gestire.
Cara pelle.
Era arrivata lei a farmi sorridere.
Per lei avevo rinunciato alla coccinella nera che ha accompagnato i cinquant'anni di matrimonio di mamma e papà quest'estate.
Per lei avevo aperto l'ennesimo finanziamento per rasserenare la convinzione di essermi meritato ormai, dopo tanto tempo, una macchina nuova.
Per lei avevo ordinato ogni angolo del garage per vederla dormire serena senza che rischiasse di essere disturbata dai miei motorini.
Buio, silenzio e lampeggianti.
Non è rimasto nulla dell'altra mattina.
Stavo andando a lavorare; non mi era mai capitato di dover comunicare di essere impossibilitato a raggiungere l'ufficio a causa di un incidente stradale.
La mia reperibilità mi imponeva di riconsegnare le chiavi.
Chiamo Massimiliano.
Arriva dopo poco e mi sussurra che gli dispiace e che la cosa più importante è che io sia in piedi fuori da quella ferraglia.
Avevamo comprato la macchina nuova praticamente insieme, qualche settimana prima.
Ci prendevamo in giro tutti i giorni.
La tua non ha questo, la mia invece ce l'ha.
Tu l'hai pagata troppo, io ho fatto l'affare.
Tu sei un minchione, io sono più furbo.
Con gli occhi ho guardato il mio migliore amico; non ci siamo detti nulla di più, ma tenerlo lì accanto a me anche solo il tempo necessario per riconsegnargli quel mazzo di chiavi, mi ha fatto tornare a vivere.
Odio il mondo ingiusto, la sfiga infame, la malattia inaspettata, il carro attrezzi che si è portato via il mio finanziamento compreso di interessi.
Come farò adesso?
Una vigilessa carina e premurosa mi faceva domande, io le davo risposte confuse.
Assicurazione mia.
Assicurazione sua.
Il conducente di quella Volvo era un uomo silenzioso.
Non parlava, non si agitava, non si scomponeva; trafficava vicino al suo motore come se stesse ricomponendo per intero un enorme LEGO. 
Sotto shock io.
Sotto shock lui.
Al CTO con Pietro e Gianni, per evitare il covid, per farmi lastrare in ogni angolo del corpo, per riabbracciare Eleonora arrivata da Chieri per sorridermi ancora.
Si fotta questa vita: non è cosi che doveva andare.
Magari non mi pagheranno neppure, mi riconosceranno quel 50% di responsabilità politica che oggi è abitudine decretare quando tutti pretendono la ragione.
Non ho più voglia di sorridere: lasciatemi solo.
Cara anima.
ora ho smesso di piangere e la notte riesco a riposare di più.
Sono sereno e tanto felice di stare a questo mondo.
Non mi sento più costretto a respirare i gas fastidiosi rilasciati dagli airbag e non devo neanche più sforzarmi di scalciare verso gli sportelli bloccati e deformati dagli urti.
Abbraccio Eleonora al mattino e, dopo averlo fatto, scendo con le mie gambe per andare in cucina a preparare la colazione.
Riapro gli occhi e riconosco le mie ali, non più confuse e disordinate tra le luci della Gran Madre.
Posso alzarmi dal divano mentre sto leggendo il mio nuovo libro sulle mafie e posso avvicinarmi alla porta di casa per andare incontro ai miei figli ,abbracciarli prima di trascorre un altro weekend insieme a loro.
Samuel e Christian sono felici di potere ancora chiamarmi NASO.
A distanza di qualche giorno posso riabbracciare la tua bellezza, posso riconoscerti come pura e sincera negli occhi di Massimiliano, di Pietro, di Gianni, di tutti i colleghi che mi hanno scritto per sapere come stavo, ed anche di quelli che non l'hanno fatto per paura di disturbare.
Cara anima.
Oltre a chiedermi come stessi, sai qual è la cosa che più di ogni altra mi hanno domandato tutti coloro che hanno saputo dell'incidente?
Se fossi stato io a causarlo, da quale parte si nascondesse la ragione e che cosa ho deciso di concludere con il mio avvocato.
A distanza di pochi giorni ho capito che le auto e la guida sono e rimarranno splendide compagne di viaggio, ma non varranno mai quanto chi mi vive intorno.
Le passioni sono fertilizzante per l'esistenza di ogni uomo, ma a cosa servirebbe arricchirsi di tanto concime se tutti perdessimo la vita in un batter d'occhio?
Riconoscere di essere stato fortunato.
Evitare di commiserarsi per ciò che è andato perduto.
Affrontare tutto con ottimismo, perché non ci sarà nessuna frattura da saldare e nessuna sedia a rotelle su cui sedersi.
Carlo, mio cugino acquisito nonché preposto a guarire la mia Nissan, vedendo la macchina dopo l'incidente mi ha detto che ancora oggi non riesce a spiegarsi come ho fatto ad uscire senza un osso rotto da quell'abitacolo.
La verità è che c'è voluto qualche giorno, ma ho capito che tra quelle luci della Gran Madre la grotta di Betlemme c'era eccome, ma la mia immatura presunzione ed il mio materiale egoismo non mi hanno aiutato a riconoscerla da subito.
Quest'anno sarà un Natale decisamente diverso, un Natale in cui ogni pastore porterà la mascherina ed ogni Re Magio non avrà granché da offrire a Gesù bambino.
Ci sarà un distanziamento tra quelle luci, in nome di una sicurezza che ogni uomo dovrebbe conquistare prima e custodire dopo, per essere sempre pronto a sorridere e a ringraziare il cielo per essere vivo e fortunato di godere delle cose belle.
Ci saranno cause da vincere, forse da perdere ingiustamente, finanziamenti da estinguere, forse da sottoscrivere ancora, notti insonni da scrivere, forse da condividere per ricominciare a vivere, ma nulla potrà mai spegnere l'entusiasmo di poter continuare a tenere accesa la luce della nostra esistenza.
In piedi, magari più poveri di pelle ma più ricchi di te, anima bella, anima dolce, anima irraggiungibile che oggi ho tanta voglia di amare.
Grazie al cielo sono vivo, illeso e pensieroso, ma decisamente più innamorato di prima della vita e delle mie passioni. 




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sabato 21 novembre 2020

Qui c'è nebbia e tutto parla d'autunno, i colori, le temperature e i profumi.
Il silenzio che c'è per strada incute un po' di paura; è come se ognuno si fosse rinchiuso tra le proprie mura a causa di una guerra che per la prima volta non ha avuto bombardamenti.
Paura della vita...
Paura della morte...
Paura di chi si incontra...
Paura di chi se ne va per sempre...
Eppure abbiamo dato una corona a questo RE a forma di virus.
Ci governa...
Ci comanda...
Ci ammazza...
Ci seppellisce...
Magari rimarrà ancora tutto l'inverno da trascorrere a tremare, un inverno da scaldare, da far passare col Natale prima e col Capodanno dopo, con l'Epifania e il San Valentino, il rosso e il giallo delle foglie cadute e il bianco coprente della neve cadente, ma la primavera arriverà per tutti, statene pur certi.
Tornerà a fare da copertina a un' estate che di certo ci farà rimanere abbracciati per sempre, emozionati e stanchi, più poveri in banca e più ricchi nel cuore, e saremo vivi, senza tubi e senza bombole, senza terapie e medici esausti.
Quel RE perderà il suo trono e la nostra REGINA governerà sovrana in nome di una rivincita che chiameremo libertà.




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giovedì 5 novembre 2020

Sapete cosa ci ha insegnato questa pandemia?
A pronunciare bene nuove parole in inglese, ad attendere con preoccupazione un nuovo D.P.C.M. e a scrivere parodie sul divano per cantarle davanti a una telecamera.
Il COVID - 19 ci ha insegnato quanto può diventare importante un lievito di birra, cosa significa spolverare prima e lavare dopo e quanto è bello avere in casa un sacco della spazzatura da andare a buttare.
Ma non finisce qui.
Pensavamo che le maschere dovessero essere usate solo a Carnevale o in sala operatoria, per fare una rapina o per arrestare qualcuno; questa guerra ci ha obbligato a sfilare tutti i giorni con la preoccupazione di aver dimenticato di indossarla, tutti persi come modelli in fila  ad attendere di entrare in un negozio, salire su un mezzo pubblico o aspettare di essere tamponati.
Questa trincea di costrizioni ci ha violentato le menti, ci ha trasformati in zombie affamati di libertà e ridotti in schiavi delle dodici ore continuative.
Titolari di attività affermate che non hanno più nulla, imprenditori di un mondo spazzato via e finito in frantumi e operai sdraiati da troppo tempo nella cassa dell'integrazione, tutti presenti al funerale di imprese fallite e uccise dalla non possibilità di ripresa.
Questo è l'insegnamento epidemiologico  più grande, quello che all'inizio tutti auspicavamo potesse servire a lamentarci meno e fare di più, a godere della vita con maggiori sorrisi e a ricordare che ne abbiamo una sola da vivere e...nulla di più.
Eccoci, tristi e invidiosi come prima, insoddisfatti e lamentosi più di prima, incazzati e vogliosi di libertà come non mai.
Già, come prima e più di prima, ma a questo punto manca un "t'amerò".
Come riusciremo a ritornare ad amare la vita se neppure un laboratorio infetto come quello in cui stiamo cercando di curarci in questo tempo non è servito ad insegnarcelo?
Quando smetteremo di farci bruciare dall'invidia, di logorarci dalla malafede e di urlare vendetta per ciò che non merita di essere recriminato?
E dove ci ritroveremo a sfilare senza mascherine tra un po' di tempo se non ci sbrighiamo a credere che il processo di accelerazione per la rinascita emotiva è decisamente più importante di quello economico?
Dietro la curva di ogni rettilineo esistono incognite che non possiamo prevedere, cambi di direzione ingestibili e perdite di aderenza pericolose.
Forse siamo ancora in tempo a decelerare per riuscire a salvare le nostre vite, non quelle alimentate da polmoni privi d'aria, ma quelle scosse dai battiti di cuori ancora bisognosi d'amore.
Buona strada a tutti.




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sabato 31 ottobre 2020

Avete mai osservato in silenzio un campo appena arato?
È apparentemente inutile, spoglio di senso e brutto da guardare.
Un terreno senza grano, privo di alberi e abbandonato dagli ortaggi non richiama l'attenzione di nessuno; non profuma, non colora, non riscalda.
Il suo piattume infastidisce; nella sua nudità trasmette rabbia e alimenta speranza: dentro l'estasi di una prospettiva futura, diventerà diverso se lo si immagina con gli occhi chiusi.
Grano alto, alberi fioriti, sinfonie suonate dal vento e foglie colorate dal tempo, musicanti piantati dentro il terreno della rinascita a raccontare il cambio delle stagioni che tutto rendono infinito.
Quando mi fermo e osservo un campo appena arato, mi capita d'immaginare le delusioni degli uomini, le loro stagioni buie, quelle fatte di solitudine, di tradimento e di sconfitta; riscopro il silenzio, l'esigenza del non voler pensare, il dolore dell'"ormai è fatta" e il riconoscimento della disfatta.
Tra i confini delle proprietà che ci stampiamo negli occhi, non si inquadrano più le cornici dell'esperienza trascorsa, l'aver imparato da ciò che si è sbagliato mescolato alla ricerca della buona volontà che ci mettiamo per non sbagliare più.
Le prospettive allontanano e i pensieri logorano: il sole che scalda le particelle dell'arido ha le sembianze di un mostro che punta il dito e rinfaccia ciò che sei, rimproverando ciò che saresti potuto diventare.
Capita però che quando tutto sembra compiuto, un fiore spunta dal nulla, solitario e smarrito, mansueto e inaspettato, privo di forze ma desideroso di crescere.
In lontananza arrivano i colori, dentro un futuro da riprendersi; nel mezzo alberi, rami, foglie e suoni.
Confini, profumi, umidità e voci, voci, voci, di chi osserva e applaude, di chi coltiva e raccoglie, di chi si stupisce e gioisce.
La nostra forza ridona vita, il nostro coraggio riaccende il cuore e la nostra sofferenza rianima i sensi.
Diventiamo frutta da condividere, grano da impastare e fiori da raccogliere, sorrisi gratuiti per chi osserva, abbracci stretti per chi resta immobile e parole sincere per chi ha voglia di riascoltare.
Il dolore è annientato, il piattume si trasforma, la solitudine diventa ricordo.
Ogni uomo è terreno fertile, ogni invidia può tramutarsi in risorsa e ogni sconfitta deve necessariamente prevedere una vittoria.
Non lo volevamo, eppure lo abbiamo fatto.
Non lo immaginavamo, eppure ci hanno visto.
Non ce lo aspettavamo, eppure è arrivato.
Il dolore lascia il posto alla rinascita che tutto annienta ma tutto alimenta.
Il lavoro trasforma il vuoto in ricchezza.
La natura umilia gli spettatori paganti e resetta gli abitudinari scrocconi.
Rimangono i curiosi e gli apatici privi d'identità: per loro dovremo aspettare il ritorno dell'inverno per congelarli ancora una volta nei sacchetti dell'indifferenza.
A ognuno il suo terreno e per ognuno tanto concime da spargere: la vita é sì faticosa, ma che soddisfazione gustarla nella sua completezza.




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venerdì 2 ottobre 2020

È stato bello adottarti.
All'inizio ti ho scelto come ripiego, ma col tempo sei riuscita a farmi innamorare di te.
Mi hai fatto compagnia in giorni molto tristi e particolarmente difficili.
Mi hai scortato con le tue musicassette dentro mondi abitati da ricordi.
Dentro gli auricolari imposti dai codici, solo tu riuscivi a farmi ascoltare sinfonie che non mi sarei mai più immaginato di riascoltare.
Hai sorriso con me.
Hai pianto con me.
Sei partita e sei arrivata.
Sei ripartita e ritornata.
Nessuna compagna a quattro ruote è  riuscita ad emozionarmi come hai fatto tu.
Grazie davvero per non avermi mai abbandonato, mai, neppure quando ti ho riempito di benzina nonostante tu preferissi il gasolio.
Buon viaggio, Coccinella: sappi che non ti dimenticherò mai.




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Tutto porta all'uscita, ed ogni uscita prevede una porta.
Si entra per cercare di capire e si esce più confusi di quando si è entrati.
Ci si ferma prima di oltrepassare la soglia e ci si volta per evitare di affrontare sorprese.
Si abbassano maniglie infuocate pur di curiosare oltre i vetri di ogni confine e si impara ad attendere che scorrano da sole per non compromettere alcun meccanismo elettrico.
Ci sono entrate preferenziali e uscite d'emergenza, posti riservati e poltrone popolari, platee o gallerie da occupare e prati e palchetti da evitare.
Ogni vita prevede una biglietteria a cui rivolgersi per chiedere informazioni prima e pagare il conto dopo: sta a noi decidere da quale ingresso entrare e a quale spettacolo assistere, consapevoli che, quando tutto sarà finito, per uscire da quel trambusto ci sarà sicuramente un'altra porta da raggiungere oltre la quale si riaccenderanno le luci per tutti.





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mercoledì 30 settembre 2020

Eravamo piccoli e oggi non lo siamo più.
Abbiamo scelto di diventare grandi viaggiando sopra la mongolfiera del tempo, osservando dall'alto un mondo che non si è fermato mai.
Abbiamo giocato mentre mamma cucinava e papà lavorava.
Abbiamo pregato dentro chiese che mi annoiavano e ti entusiasmavano.
Abbiamo corso e rallentato, cantato e suonato, studiato ed animato.
Siamo stati prima figli, poi fratelli, infine padri; controllori e controllati, scrittori e musicisti, calciatori e nuotatori.
Ci siamo sposati e...separati: l'ho fatto io, mentre tu osservavi le tue e i miei figli preoccupandoti per loro.
Laurea e diploma, concorso e sindacato, musical e carta stampata.
Abbiamo anche litigato, quando (ovviamente) ero io dalla parte della ragione; figuriamoci se poteva essere diversamente.
Ci siamo giudicati pesantemente a vicenda, spendaccione io e tirchio tu, indebitato io e parsimonioso tu, spudorato io e razionale tu: eppure ci sei sempre stato!
Abbiamo pianto e abbiamo riso, spesso, e la diversità caratteriale si è sempre mescolata alla somiglianza nei nostri modi di fare.
Io bello e tu brutto, per gioco, per scherzo, per raccontare al mondo che rimane ancora sotto di noi che di gas da sparare dentro la nostra mongolfiera ne abbiamo ancora da vendere.




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sabato 26 settembre 2020

Quando decidiamo di metterci in posa per immortalare un momento, abbiamo sempre difficoltà a decidere se abbracciare chi ci capita di fianco.
La mente muove le nostre braccia prima sui fianchi, poi sulla schiena, infine in tasca.
Capita che si ritrovino anche libere da ognuna di queste alternative, ma quasi sempre accompagnate da sorrisi splendenti.
La conclusione di queste scelte porterà a riconoscere uno scatto che rimarrà stampato su carta fotografica da lasciare invecchiare o archiviato in una cartella gialla da sfogliare ogni tanto.
Dentro quelle immagini ognuno racconterà l'euforia o la delusione di quel ricordo, la verità o la finzione del proprio entusiasmo, il peso o l'indifferenza per essersi ritrovati dentro quel quadretto insieme ad altre comparse che come lui hanno atteso un click.
L'artista senza tavolozza accerterà che tutti gli occhi fossero rimasti aperti, che gli effetti utilizzati abbiano assolto alla propria funzione e che ogni parte dei corpi immortalati sia stata riportata per intero dentro un mondo passato che non tornerà mai più.
Si sciolgono le righe e si torna alla mobilità, abbandonando lo statico per incuriosirsi del risultato raggiunto.
Si sorride, si commenta, si replica: il protagonista resta, gli attori lasciano il loro posto ad altre comparse.
Tutto rimane archivio: per pochi fastidioso, per molti gradevole.
Mettersi in posa davanti a un obiettivo equivale al riconoscersi più giovani o meno giovani inginocchiati nella vita che trascorre.
Quelle mani nascoste o in evidenza rimarranno le mani di chi ha dato oppure ha ricevuto, ha accarezzato oppure ha chiuso i pugni, ha abbracciato o è fuggito via.
Quegli occhi chiusi o aperti rimarranno l'anima di ciò che abbiamo immortalato in vita; colorati o in bianco e nero, saranno le custodie delle immagini che conserveremo o le password delle cartelle gialle che salveremo.
I nostri corpi non tagliati rimarranno storie scritte e raccontate, favole per bambini e leggende per grandi, romanzi per i più romantici e gialli per i più temerari.
Uno, due e tre: tutto diventa passato da rivedere e futuro da immaginare con l'aiuto di un presente a colori da incorniciare. 




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martedì 22 settembre 2020

Vedervi sorridere mi rende felice, mi fa sentire importante, invincibile, vincente.
Sono molte le volte in cui vorrei poter fare di più, vorrei provare a farvi credere quanto sarà importante affrontare la vita disinteressandosi dei dinosauri sfigati che incontrerete e cercheranno di cibarsi di voi.
I vostri viaggi vi porteranno sopra pianeti confusionari dove a volte avrete voglia di perdonare, altre di vendicarvi.
Vi incrocerete con iene pelose nate sconfitte, invidiose della vostra capacità di andare oltre, e quando ogni cosa si trasformerà in dispetto, avrete voglia di reagire per trasformarvi in bestie feroci come loro.
Non fatelo, non tirate mai fuori la spada tagliente dell'odio, dell'astio, del "ti faccio vedere io".
Non è questo che serve per uscire vincenti dalle provocazioni dell'ignoranza, perché la violenza è ignoranza, piccolezza, fragilità, e il mondo che ci è stato dato da vivere è molto più popolato di scimmie che hanno scelto di fermarsi, rispetto a pochi uomini bravi a continuare.
È molto più semplice addormentarsi: ci si stende, si chiudono gli occhi e s'immagina quello che piace.
Il difficile è risvegliarsi: cancellare i sogni brutti per non lasciarsi condizionare  l'umore, lavarsi e rivestirsi per uscire e ricominciare a correre; vivere a contatto con le stesse iene incrociate il giorno prima consapevoli che a casa abbiamo lasciato il nostro gatto peloso che tutte le sere ci fa le fusa.
E pensare che potremmo fare tutti finta di sognare anche da svegli, persi ma sorridenti dentro una vita notturna illuminata dal sole.
I miei raggi caldi siete voi: usateli anche per gli altri, sempre, perché la terra ha bisogno di sole e non di temporali.
Scaldate e fate scaldare, sorridete e lasciate che gli altri sorridano, abbracciate e stupite chi non se lo aspetta, ricordando agli abitanti di ogni foresta che dovrete inevitabilmente attraversare, che la vita è bella anche al fresco e al riparo sotto gli alberi, ma che prima o poi, ad abbronzarci al sole, ci torneremo tutti.




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mercoledì 2 settembre 2020

L'ordinario si può programmare, lo straordinario invece no, ma a cosa serve attenderli entrambi se lo spirito con cui bisognerebbe affrontarli non è quello giusto?
Trascorriamo ore in balia delle critiche più assurde.
Diventiamo osservatori dei movimenti degli altri e bradipi di quello che invece dovremmo ottimizzare.
Guardiamo le lancette degli orologi appesi sperando che aumentino la loro velocità d'esecuzione e immaginiamo sempre aperta la porta che libera le nostre costrizioni invece di goderci gli attimi intensi che piano piano compongono la nostra esistenza.
Sprechiamo tempo per identificare gli amici distinguendoli dai colleghi e facciamo sempre felici i più infelici sacrificando i più belli a discapito dei rapporti migliori.
Certo che siamo proprio strani; e pensare che basterebbe fare un bagno al mare in un pomeriggio di inizio settembre per capire quanto è bello amarsi dimenticando tutto il resto.




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domenica 30 agosto 2020

Mi chiedi di scrivere qualcosa per te: ecco, ti racconto l'importanza del saper osservare.
Sai qual è la risposta più plausibile alla domanda meno scontata?
Il significato tra il conoscere e il riconoscere.
Riconosco perché conosco; non potrei mai riuscire a riconoscere qualcosa che non ho mai conosciuto.
La bellezza nascosta dietro tutto questo apparente gioco di parole, è pari al tramonto di un sole che chiede al mare di custodirlo per una notte.
Solo dopo aver conosciuto ciò che la vita ha voluto presentarci, potremo un giorno salutare e ringraziare quello che incontreremo.
Riconoscere l'amore da vivere, ma anche l'odio da annientare.
Riconoscere la felicità da regalare, ma anche il dolore da curare.
Riconoscere la pace dell'anima, ma anche le guerre interiori che logorano le anime.
Viaggiare è osservare, da ogni finestrino che ci capita di abbassare.
La vita è saper apprezzare ogni segno conosciuto, accompagnato dalla speranza di riuscire a riconoscerlo un giorno tra i ricordi più belli mai visti prima.
Oggi posso dire di averti riconosciuto: non ti conoscevo ma sei stata alba da vivere sin dalle prime luci del mattino
.




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martedì 25 agosto 2020

Un matrimonio che dura così tanto non è un matrimonio; commette un grosso errore chi lo considera solo un traguardo da festeggiare.
Un matrimonio che dura cinquant'anni è un miracolo, un sorprendente ed inaspettato podio che solo il sacrificio e la dedizione possono permettere di conquistare.
Giorno e notte, albe e tramonti, sorrisi e lacrime, soste e ripartenze.
Figli, diversi ma uguali, da allattare in attesa dello svezzamento, da educare sperando di vincere, da amare anche quando si è perso in partenza.
Figli, vicini e lontani, da aspettare e da salutare, da perdere e da ricercare, da accarezzare quando restano svegli e da sgridare quando Morfeo li ha custoditi.
Figli, silenziosi ma prevedibili, sfacciati ma insostituibili, indispensabili ma destinati ad abbandonare il nido.
Il vostro miracolo è compiuto; il mondo ne ha parlato ed in tanti sono accorsi a toccare con mano che tutto era vero.
Vi abbiamo abbracciato, coccolato e festeggiato; qualcuno ha pregato per voi, qualcun altro ha goduto delle vostre emozioni, qualche estraneo ha sorriso nel vedervi felici.
Io vi ho riscoperto bambini, persi dentro al tempo che vi ha invecchiato, incollati dalle urla delle vostre discussioni e imbarazzati dalle rughe dell'anima che ancora oggi raccontano di voi come due sposi follemente innamorati.
Il vostro miracolo è compiuto, e non lo abbiamo toccato con mano solo noi.
Qualcuno si è alzato e a ripreso a camminare nella direzione del sole dopo aver vegliato da lontano nelle tante notti insonni che siete stati obbligati a trascorrere.
Le lacrime di sangue versate dai volti delle statuine collezionate negli anni, oggi si sono trasformate in lacrime di gioia, asciugate e cancellate dall'affetto di chi ha deciso di circondarvi d'amore.
Il sepolcro del vostro matrimonio si è aperto e la luce che i vostri figli e i vostri nipoti sono stati in grado di darvi, ha fatto sì che quella che tutti considerano la tomba dell'amore diventasse podio di vita da invidiare prima e da imitare dopo.
Tutto è compiuto: dall'argento all'oro in attesa della mirra, senza incenso referenziale a fare da contorno a un amore semplice donato a chi vi ha conosciuto.
Che i vostri cinquanta diventino un diamante, da incastonare nell'anello più grande, nel pendente più bello, negli orecchini più preziosi.
Conservate questo gioiello nella cassaforte più sicura, acquistate piena consapevolezza della vostra ricchezza e continuate a fare splendere la luce del vostro amore per tanti anni ancora. 
La vita vi ha sorriso e sarebbe un peccato farsi derubare dal primo passante un bene prezioso come quello che siete stati in grado di custodire.
Siete due rompiscatole ma, nonostante tutto, non vi cambierei con nessun altro genitore al mondo.
Auguri mamma.
Auguri papà.




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martedì 11 agosto 2020

Riconoscersi deboli, fragili, incapaci di non riuscire più a costruire quello che fino a qualche tempo prima consideravamo la gioia più grande, la naturale e spontanea capacità di riconoscersi in ciò che prendeva forma costruito dalle nostre passioni.
Libri scritti dalle nostre penne, quadri disegnati dai nostri pennelli, brani composti dal nostro estro e cantati dalle voci di altri.
Podi conquistati dal sudore di risultati raggiunti a fatica, restauri curati nei minimi particolari, orti ordinati, collezioni incrementate, riviste consumate.
Capita di perdersi, di non avere più nulla da scrivere, da disegnare, da comporre.
Capita di smarrire ogni riferimento, di mettere le mani in tasca e non trovare più la bussola che orientava, il mazzo di chiavi che apriva, il paio di occhiali che tutto metteva a fuoco e tutto rendeva più chiaro.
Capita di domandarsi se conta di più concentrarsi sui km percorsi dalle nostre aspettative oppure sulla velocità con cui decidiamo di lasciarle alle nostre spalle.
Ogni viaggio è un libro da scrivere, un quadro da disegnare, un pezzo da comporre.
Ogni viaggio è un podio da conquistare, un restauro da concludere, un orto a cui dar vita.
Ogni viaggio è una collezione da accrescere, una rivista da terminare, una partita nuova vincere.
Ogni vita sta al viaggio come ogni viaggio sta alle passioni con cui decidiamo di condirla.
La debolezza e la fragilità del sentirsi a volte incapaci è solo la conseguenza degli antibiotici futili che il tempo ci impone di ingerire, riuscendo persino a farci sentire ammalati di depressione, autismo o dislessia.
E pensare che quand'ero ancora bambino e mi sbucciavo le ginocchia sull'asfalto dei campi di calcio improvvisati sotto casa, di certe patologie non se ne sentiva ancora parlare.
Viaggio e con la coda dell'occhio memorizzo i km che vanno e non torneranno mai più.
Corro, rallento, accelero e decelero.
Il solito orizzonte non è più lo stesso ed io non voglio andare via da tutto questo, non adesso.
Mi accorgo che prima che la spia della riserva mi si accenda, posso fare ancora tanta strada e, come per magia, il contorno della provinciale che percorro diventa passione.
Stazioni di sevizio a forma di libri, asfalto con note musicali e segnaletica stradale incorniciata in quadri da esporre in gallerie diverse da quelle che dividono la luce e il buio dei miei alti e bassi.
Arriverà un giorno in cui qualcun altro ritroverà le nostre bussole, metterà gli occhiali per vederci meglio e, con il mazzo di chiavi che gli lasceremo in consegna, aprirà i caselli del suo viaggio per godersi il panorama che grazie a noi saprà apprezzare.
Prendo in mano la mia penna e ricomincio a raccontare ciò che incontro, affinché ogni pensiero diventi musica da cantare e ogni pagina scritta emozione da ricordare.



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giovedì 6 agosto 2020

Quando Antonio decideva di abbracciarti, ti abbracciava e basta.
Era completamente disinteressato della forma e della prassi: stringeva forte, quasi a voler diventare un tutt'uno con la sua preda a cui aveva deciso di trasmettere calore.
I suoi abbracci non erano come quelli che di raro ci scambiamo noi.
Quando Antonio decideva di raccontarti un aneddoto, te lo raccontava e basta.
Era un fiume in piena che travolgeva ogni tentativo di farla franca per riuscire a tornare a lavorare.
Non potevi mai fare a meno di dargli retta altrimenti ti avrebbe comunque inseguito per arrivare alla fine della sua riflessione.
Quando Antonio si accorgeva del tuo malumore, inevitabilmente ti sorrideva, ricordandoti che "tutto si risolve, perché la vita è bella e nulla può essere più importante della buona salute".
Cì, quanta gente ti ha voluto bene tu non lo immagini neanche.
Ti ricordi quando sei stato investito in moto tanti anni fa?
Corsi in ospedale a trovarti e ridendo sulla barella mi dicesti:
- Cì: te l'avevo detto.
Quando mi vedi in verticale va tutto bene, ma quando sono orizzontale come adesso ti devi preoccupare.
E comunque neanche all'inferno mi vogliono!
Altro che inferno: oggi il paradiso te lo sei guadagnato a punteggio pieno.
Ridevi...
Ridevi...
Ridevi...
Sempre e comunque!
Addirittura sei riuscito ad addormentarti per sempre salutandoci col tuo sorriso.
Ti ricordi l'impianto hi-fi che avevi sulla tua vecchia Lancia Y?
Valeva di più dell'intera macchina, eppure…quante cantate a squarciagola coi finestrini aperti nel cuore della notte di Torino negli anni della Valdocco.
Avevi delle pillole di saggezza che solo dalla tua bocca potevano uscire:
- Cì: le donne sono come un libro aperto  ed io "CI" strappo le pagine...
Stamattina ho sentito Sonia, mi ha passato il piccolo Gabriele; le ha detto che ero un tuo amico, un tuo collega, e lui sai cosa le ha chiesto prima di parlare con me?
"Anche lui è volato in cielo come papà"?
Anche il mio cuore si è fermato, eppure sono qui, vedi?
In fin dei conti noi tutti non siamo così diversi da vivi o da morti, basta annullare ogni attimo orizzontale per sentirci verticali in eterno.
Forse la verità sta proprio qui, nel provare a sentirti sempre vicino, nel vederti ridere, nel vederti fumare, nel vederti bere caffè, nel considerarti presente, qui, vivo in mezzo a noi.
Resto in silenzio e continuo ad aspettare che tu me lo chieda ancora, con la tua sigaretta tra le mani e quel sorriso permanente che t'illuminava il volto:
- Cì: lo vuoi il caffè?
No, non doveva finire così.
Non per te, per la tua onestà d'animo, per la tua sincera voglia di perdono, per la tua rara sete d'amicizia.
Antò: io non ce la faccio proprio a non immaginarti più dietro quella scrivania che delimitava il tuo regno stracolmo di reperti, con quelle mezze naturali abbandonate in ogni angolo e i tuoi cassetti disordinati stracolmi di ogni cosa.
Qualche settimana fa ero venuto in Commissariato a recuperare le mie divise; qualcuno a telefono mi aveva riferito che avrei dovuto liberare quanto prima l'armadietto.
Era dal giorno del mio trasferimento che avrei dovuto farlo, eppure, chissà perché, vivevo serenamente l'idea di poter continuare a rinviare sapendo che a vigilare sulle mie divise c’eri tu.
Ero certo, però, che semmai fossi stato obbligato ad organizzare quel trasloco, uno dei pochi disposto ad aiutarmi, saresti stato proprio tu.
- Cì: ma perché non te ne torni qua?
Caro amico mio: col senno di poi, se avessi saputo che tornare in Via Verdi sarebbe servito a riabbracciarti ancora una volta, lo avrei fatto sul serio.
Piango, e continuo a domandarmi quante giornate tristi come queste dovranno ancora passare prima che la nostra famiglia in divisa capisca che siamo "poca cosa", e che è dentro ogni nostra vita che bisogna imparare a volersi bene, proprio come tu ci hai insegnato a suon di sorrisi.
Cì: diglielo tu a chi non ci crede ancora.
Continua a farlo dal Paradiso, come hai sempre fatto tutti i giorni nel cortile del Commissariato, con le stesse buone maniere e gli infiniti e forti abbracci che hanno premiato la tua esistenza qui in terra.
Stringici ancora, uno per uno, e chiedici ancora una volta se abbiamo voglia di bere un altro caffè.
Gustiamolo insieme, davanti a quella macchinetta rumorosa che inevitabilmente ci farà ricordare di te
Tirala fuori quella chiavetta rossa stracarica d'amicizia e offrine ancora uno a tutti, perché il sapore amaro e privo di zucchero che sei riuscito a lasciarci in bocca, non ci abbandonerà mai.
Sei vivo, sei dei nostri, lo sei sempre stato, e noi non lo dimenticheremo mai.
Buon viaggio verso il Paradiso Cì.. 



 

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martedì 12 maggio 2020

Se Silvia fosse partita col burqa e fosse tornata vestita da suora, nessuno avrebbe fiatato.
Si sarebbero trovati tutti d'accordo ad investire i quattro milioni di euro che sono stati spesi per recuperarla.
Quanta ipocrisia conferma chi siamo.
Tante e diverse sono state le occasioni in cui ho raccontato il mio pensiero a proposito delle religioni e al potenziale che hanno nel riuscire a trasformare tanti uomini in bestie feroci.
Giustificare o condannare le mille esternazioni del mondo giornalistico e politico che ieri hanno riempito i quotidiani, sarebbe quindi una perdita di tempo del tutto inutile e noiosa.
Le solite guerre di pensiero; liberisti contro garantisti, radicali contro moderati, estremisti e nostalgici contro Marco Travaglio e Lucia Annunziata.
Salvini richiama l'attenzione sul funerale di Stato di Pasquale, l'ultimo saluto a un ragazzo che come tanti ha perso la vita nel compiere il proprio dovere, privato completamente della presenza di autorità istituzionali.
Silvana De Mari ce l'ha con chi ancora spende soldi per andare a recuperare "sciaquine che vanno a farsi la vacanza in Africa".
Fabio Fazio dice che non esistono i clandestini e che il mondo dovrebbe sentirsi libero di essere esplorato e vissuto senza confini.
La Meloni ricorda che la prima frase pronunciata da Greta e Vanessa quando vennero liberate nel Gennaio del 2015 fu "torneremo presto in Africa": Silvia Romano ci ha messo qualche ora in più di loro per ripeterlo, ma l'ha fatto anche lei.
L'elenco delle riflessioni urlate a riguardo potrebbe continuare, ma mi fermerei per richiamare l'attenzione sul fatto che chiunque ha fatto bene ad esternare il diritto delle proprie conclusioni davanti a quel vestito da carnevale scortato dal Presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri.
Quel costume lo abbiamo strapagato tutti, e poiché non è il primo che acquistiamo a fondo perduto, forse è anche giusto che qualcuno sia un pò incazzato.
Aveva ragione Leonardo Sciascia quando scriveva nel suo splendido romanzo intitolato "A ciascuno il suo" che il morto è morto quindi è meglio dare aiuto al vivo, ma chi stabilisce chi è veramente morto e chi invece merita di essere aiutato perché è ancora vivo?
Questa è la mia conclusione, una delle tante, simile alle migliaia pubblicizzate e diversa, magari, dalle migliaia rimaste in silenzio.
Una vita merita sempre di essere salvata; una figlia merita sempre di riabbracciare la sua mamma e una mamma merita sempre di riabbracciare sua figlia, ma esistono modi e tempi per custodire nella segretezza le emozioni che comportano certe urgenti operazioni.
La politica, di destra e di sinistra, sfoggia il conseguimento di certi risultati per farsi bella, sempre, senza mai pensare che esiste una fetta enorme di volontariato nel nostro paese fatta di povertà, di esasperazione, di morte.
Non tutti hanno la capacità di giustificare la diplomazia internazionale, di ponderare  il peso importante del lavoro dei servizi segreti o di accettare che certe operazioni concludono un lavoro estenuante frutto di investimenti assurdi, ma ciò che rimane stampato nell'animo ferito di chi sta perdendo il lavoro e vedendo andare a farsi fottere anni di sacrifici, sono i quattro milioni di euro pagati, in giorni come questi, per riportare a casa quella ragazza.
Bisognerebbe forse rileggere certe storie fintamente romanzate, affinché non abbiano più a ripetersi.
Parliamo di queste partenze, delle autorizzazioni rilasciate dalle ambasciate che prima autorizzano chiunque al volontariato e, a tempo debito, incassano la tangente del rilascio concordato.
Quanti partirebbero ancora per fare un selfie come questo senza avere la garanzia di tornare a casa grazie alla copertura di uno Stato che lascia morire chi lavora seriamente e non arriva a fine mese?
Uno Stato che però garantisce la conversione, il recupero ed il ritorno nella terra promessa di studenti e studentesse che credono di realizzare i propri sogni lontano da proprio paese che fino al giorno prima hanno saputo solo disprezzare?
Bentornata a Silvia, non è lei il problema, perché come lei ne esistono tante che continueranno a partire a costo zero e a tornare con gli interessi.
Il problema non è la chiesa o l'islam, non è un colletto bianco o il jilbab, non sono i quattro milioni di euro pagati ai terroristi o l'elemosina di seicento euro data ai moribondi.
Il problema vero lo rappresenta chi con la mascherina tricolore da destra a sinistra continua a farsi pubblicità sul palco della comunicazione, specie in un momento storico come questo in cui tutto è in terapia intensiva e corre il rischio di morire.
Se è vero che il morto è morto e chi è vivo merita di essere aiutato, ricordiamoci anche di chi cerca a stento di rimanere in piedi, forse perché consapevole che qualcosa o qualcuno gli sta scavando la fossa col badile delle sue bugie.




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domenica 10 maggio 2020

La pelle di una mamma non è mai come la pelle di una qualsiasi altra donna.
Accarezzarla mentre la si guarda negli occhi è l'emozione più grande riservata agli uomini a cui è stata data l'opportunità  di sperimentarlo.
La mamma ha un profumo mai sentito, è un'essenza che solo pochi olfatti possono riconoscere.
Non è limone, non è lavanda, non è cannella, non è vaniglia.
Il profumo di una mamma è fragranza pregiata riservata esclusivamente ai propri figli.
Le braccia di una mamma non sono come le braccia delle nonne, delle zie, degli amori trovati e abbandonati.
Sono braccia poderose in grado di scoprire tutti i segreti, cariche di una potenza capace di alzare ogni peso inaspettato e forti a tal punto da riuscire a scacciare brutti sentori e inaspettati presentimenti.
Le gambe di una mamma non smettono mai di correre; possono essere claudicanti e segnate dal tempo, ma corrono, si piegano, si rialzano e ripartono, per venirci incontro o per allontanarsi, sempre e solo compiendo la volontà di noi figli, registi e scenografi delle commedie che imponiamo loro di recitare.
Pelle...
Profumo...
Braccia...
Gambe...
Provate a chiedere a chi la mamma non ce l'ha più cosa desidererebbe rivivere tutte le volte che la sente troppo lontana.
Accarezzare la sua pelle, sentire il suo profumo, fare il pane e la pasta con la ciccia delle sue braccia o sedersi e abbracciarla stando sulle sue gambe stanche.
Una mamma non muore mai, la si sogna e la si incontra, la si vive in ogni ricordo senza mai smettere di desiderarla.
Tutto questo intenso e misterioso vivere, diventa risposta inesorabile per chi ancora non è stato in grado di sincerarlo.
Ogni mamma è amore, ma è l'amore ad essere rappresentato dall'essere mamma.
Qualcuno diceva che l'amore di una mamma è cieco, e se è vero che Dio è amore e l'amore è cieco, vorrà dire che la mamma è Dio.
E allora che l'amore sia manna per tutti.
Che ogni figlio innamorato come me della sua possa continuare a sorridere per averla così bella e che ogni mamma volenterosa si goda la sua festa deliziando ancora una volta mariti, figli e nipoti di quella che rimarrà per sempre la sua dote migliore: cucinare!
Auguroni mà...




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sabato 9 maggio 2020

Buongiorno amici di Meraklìdikos e felice weekend a tutti voi.
È passato un po' di tempo dall'ultima volta che ci siamo incontrati a suon di botta e risposta sul blog.
Nel frattempo sono successe molte cose, forse troppe, talmente tante che è stato sempre più difficile scegliere un un argomento per cui scrivervi
Qualcuno è stato contento di non leggere, qualcun altro dispiaciuto, a tal punto da chiedermi il perché di questo silenzio.
C'è chi è riuscito a distrarsi per pochi minuti, chi invece a preoccuparsi per ore; peggio ancora chi si è sentito offeso o addirittura prima ferito e poi abbandonato.
La verità è che scrivere è un po' come leggere.
Ci sono giorni in cui potremmo divorare un libro in poche ore, altri in cui non lo terremmo in mano neanche per tutto l'oro del mondo.
Ci sono giorni in cui potremmo irrigare campi interi con le parole, bagnare come un fiume in piena ogni spazio bianco dei fogli di carta che ci capita di riempire.
Certo è strana questa passione della lettura, ma forse lo è ancor di più quella della scrittura.
L'ultimo nostro arrivederci risale al giorno in cui la bandiera della liberazione italiana sventolava impetuosa.
Oggi non c'è più vento.
Tutto tace dietro il mutismo delle mascherine che indossiamo, tutto spaventa nelle passeggiate rubate per riassaporare un pizzico di libertà, tutto trema nel riconoscerci zombie ormai incapaci di capire dove stiamo andando.
Pasquale è morto mentre cercava di garantire alle carceri svuotate un bandito.
Hanno celebrato il suo funerale ieri, nell'indifferenza spettrale di un paese abitato addirittura da chi ha gioito per la sua morte.
Anche i medici in corsia continuano ad ammalarsi prima e a morire dopo; sono diventati numeri, statistica, diagrammi simili a quelli colorati che quotidianamente studiamo per dare una risposta a chi giustamente ci chiede di comportarci bene.
Siamo schiavi di fasi da sperimentare, lavoratori agili bravi solo a tenere acceso il cellulare e robot spenti in modalità smart working vogliosi di arrivare quanto prima alla pausa pranzo.
Abbiamo imparato il significato della parola lockdown senza andare a scuola d'inglese, ci siamo specializzati a rivendicare i nostri diritti davanti ad autocertificazioni non compilate e sottoscritte e abbiamo riempito le memorie dei nostri smartphone coi video scaricati da WhatsApp che ogni giorno ci hanno fatto ridere e piangere.
Non ho mai visto i cestini solidali così pieni; se dovessi individuare un'immagine che rappresenti i giorni che stiamo vivendo, la ricercherei dentro quella cartella.
I carrelli famelici di chi va a fare la spesa tre volte al giorno sono in coda ovunque.
Li accompagnano volti attenti a dispensare sorrisi speranzosi che non si vedono perché coperti, e sguardi preoccupati che si intravedono perché scoperti.
Domiciliari ai criminali e condanne a morte agli imprenditori.
Telegiornali complicati da guardare che sembrano registrati e riproposti uguali al giorno prima; quotidiani ristampati difficili da sfogliare senza trovarci dentro ciò che avevamo già letto.
Decessi e guarigioni, ricoveri e dimissioni,  soldi stanziati e mai arrivati, aperture e chiusure, aperitivi abusivi sui navigli e plexiglass sperimentali nei ristoranti.
State a casa...
Potete uscire...
Meglio che state a casa...
Adesso potete uscire...
Fase 1 - Fase 2 - Fase 3
La maturità senza scritti, il calcio a porte chiuse, lo spettacolo senza pubblico.
La satira deludente, i confronti serali mortificanti, gli speciali notturni devastanti.
Sapete che una delle più belle trilogie che ho letto l'ha scritta Oriana Fallaci?
Certo, il soggetto contenuto all'interno di quelle pagine tratta tutt'altro, ma i tre titoli che la compongono sembrano appartenere al quadro che la storia sta disegnando in questi mesi.
La rabbia e l'orgoglio, la nostra Fase 1.
La forza della ragione, la nostra Fase 2.
L'apocalisse, la nostra Fase 3.
Pazzesco, vero?
Purtroppo o per fortuna oggi le torri gemelle dell'onnipotenza dell'uomo le ha tirate giù uno sporco virus.
Ha fatto più vittime dell'Islam perché non solo ha sgozzato degli innocenti, ma ha steso al tappeto anche la speranza di chi è rimasto in vita.
Ci dicono che la Fase 1 è finita, che dobbiamo smettere di parlare di rabbia e tirar fuori l'orgoglio.
Ci hanno catapultati nella Fase 2, quella dentro cui la forza della ragione dovrebbe vincere sopra ogni assurdo azzardo.
Alla Fase 3 speriamo di non arrivarci mai, perché se questa non fosse una prova generale dell'Apocalisse, sarei veramente preoccupato di conoscere quella vera.
Nel frattempo spero che anche oggi ci sia un po' di sole ad illuminare il mio balcone, perché è nell'ombra che vedo proiettata sulle sue pareti che riesco sempre a riconoscere il tramonto.




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sabato 25 aprile 2020

Festeggiate e cantate perché siete tutti convinti di essere veramente liberi?
Certo che sì, lo siete davvero, ed è per questo che fate bene a farlo.
Vi siete svegliati e non avete più trovato l'invasore, qualcuno vi ha seppellito dove desideravate lassù in montagna e qualcun altro continuerà a riconoscere nel bel fiore che sboccerà davanti alla vostra tomba, il simbolo di una libertà prima desiderata e poi conquistata.
Festeggiate e cantate perché siete tutti convinti di essere veramente liberi?
Certo che sì, lo siete davvero, ed è per questo che fate bene a farlo.
Adesso avete regole democratiche che salvaguardano finalmente i vostri diritti, gli stessi diritti che qualcuno aveva soppresso come fossero treni per pendolari.
In effetti un po' traghettatori siete rimasti, bravi a passare da una riva all'altra di ogni fiume in piena, pur di evitare di consegnare le acque a quelli diversi da voi.
Adesso tutto è finalmente regolato dalla libertà dei pensieri e delle parole, da una giustizia apolitica che fa rispettare ogni legge e da un'economia solida che rende i popoli uguali ai governi, senza discriminazioni di sorta e capitali politici onerosi che offendono chi lavora sodo.
Festeggiate e cantate perché siete tutti convinti di essere veramente liberi?
Certo che sì, lo siete davvero, ed è per questo che fate bene a farlo.
Avete combattuto la peste nera a suon di spari, avete seppellito soldati in giacca e cravatta armati di pistole e manganelli e avete appeso a testa in giù la dittatura che opprimeva ogni vostro diritto di poter viaggiare nella direzione a voi più confacente.
Oggi accendete candele, suonate inni e cantate vittoria perché la liberazione è arrivata.
Una liberazione che meglio rispetta i diritti dei lavoratori, meglio tutela la gente onesta e meglio garantisce alla giustizia i banditi.
In effetti viviamo tutti meglio grazie a voi, popolo delle bandiere rosse ancora in grado di strumentalizzare la parola libertà, confondendo la regalità della sua onnipotenza con un passato che avete voluto venisse strappato dalle pagine dei libri di storia.
Festeggiate e cantate perché siete tutti convinti di essere veramente liberi?
Certo che sì, lo siete davvero, ed è per questo che fate bene a farlo.
Ma a questo punto è anche giusto che smettiate di lamentarvi quando tutto va a rotoli, quando nessuno paga la pena che gli è stata inflitta e quando tutto muore sotto le macerie dell'egoismo abusivo.
Imparate a rimanere in silenzio quando i governi che la "sacralità" della vostra costituzione ha disegnato, non sono in grado di reggere il peso della libertà che altri, e non certo voi, hanno conquistato credendo fermamente in quello che ricercavano.
Imparate a non lamentarvi quando la politica vestita di camicie colorate, e ben diverse da quelle nere, sfianca ogni vostro sforzo di sopravvivenza, umiliando in maniera più subdola e maliziosa gli ideali per cui altri, e non certo voi, hanno sacrificato addirittura la propria vita.
Imparate ad accogliere chi sbarca prima e violenta dopo, chi spacca vetrine per manifestare a favore di un'anarchia che ritiene lecita e chi non lavora come voi ma pretende un reddito di cittadinanza nel rispetto di quel diritto di uguaglianza che voi avete fortemente preteso.
Io oggi festeggio gli amici che si chiamano Marco, festeggio i numeri in ribasso dei morti di un'altra guerra priva di partigiani, festeggio un giorno più vicino alla mia libertà, che poi è anche la vostra.
Oggi festeggio l'eroismo degli operatori sanitari, l'emozionante disponibilità della protezione civile e la straordinaria forza di volontà di chi ha contribuito in ogni modo ad ottenere la pace durante questi bombardamenti mediatici e fisiologici.
Oggi festeggio l'ottimismo di chi dovrà rialzare le saracinesche, i sorrisi di chi ha perso molto, ma nonostante tutto ha voglia di riconquistarlo, e la doverosa speranza di voler ripartire quanto prima.
Spero di svegliarmi una di queste mattine, di non trovare più l'invasore dei giorni nostri, quello che gioca togliendo il respiro, uccide senza baionetta e finisce per umiliarti senza concedere neppure un funerale.
È questa la conquista che auspico per il mio 25 aprile, una liberazione lontana dalla storia e ben diversa da quella che oggi avete ancora voglia di cantare.




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mercoledì 22 aprile 2020

Avevo vent'anni e all'epoca anch'io portavo al collo una catenina d'oro.
Quella domenica decisi di partire da Potenza per andare a trovare a Francavilla Fontana uno dei miei colleghi di corso con cui avevo legato di più.
Si chiamava Gianluca.
Mi portò a fare un bagno nel mare di San Pietro in Bevagna, dentro un'acqua talmente bella da riuscire a ricordarla limpida e chiara ancora oggi, a distanza di decenni.
Io lo chiamavo PIZZARRONE...
Lui mi chiamava SCUPETTINO...
Qualche anno prima eravamo in forza al Reparto Mobile di Taranto ed entrambi dividevamo la camerata con l'amico rossanese Nilo, grande uomo e di grande mole.
Tutte le mattine ci svegliavamo con la sua sveglia metallica, una di quelle con dentro imprigionato un gallo che becca ogni secondo un chicco di grano.
Quanti voli ha fatto quella sveglia; Nilo la scaraventava puntualmente contro la parete della stanza tutte le mattine, ogni volta che quei campanelli in ferro ci avvisavano che l'ora dell'alzabandiera era vicina.
Eppure quel gallo non moriva mai.
Il giorno dopo era pronto a beccare nuovamente in attesa di cantare ancora.
Ci volevamo bene, nonostante il nostro lavoro spesso ci trasformava in apparenti  superuomini che si divertivano a giocare a chi era il più forte.
Io perdevo sempre, ero magro da fare schifo, ma vedere loro due farsi i dispetti, era la cosa che mi faceva spaccare di più in quegli anni trascorsi lontano da casa; anni in cui tutto sembrava difficile, per cui tutto era apparentemente "sacrificio" e dentro cui tutti cercavamo di ammazzare il tempo in attesa di ritornare a vivere quanto prima nelle nostre città d'origine.
Oggi pagherei per riavere quegli anni, e sono certo che con me si indebiterebbero  anche Gianluca e Nilo.
Oggi, dove tutto sembra difficile, tutto è "sacrificio" non più apparente e per cui tutto va vissuto alla giornata senza sapere ciò che il futuro potrà riservarci.
La storia si ripete, e forse si ripeterà, con l'unica differenza che a nessuno mancheranno questi giorni; nessuno dirà mai che questi sono stati gli anni più belli della propria esistenza ed è certo che nessuno vorrà immaginare di riviverli per il solo desiderio di sperimentare nuovamente le emozioni messe a dura prova in questi mesi.
Una volta tanto il passato ha asfaltato il presente.
Ci sarà un futuro da ricostruire, ma se sulla tavolozza da disegno riusciremo a mettere i colori di quel mare pugliese che circa trenta anni fa mi presentò PIZZARRONE, sono certo che lo spettacolo che ne verrà fuori sarà meritevole di essere ancora messo in scena, senza guanti e coi volti scoperti.




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