Quando un collega si toglie la vita, senza saperlo la toglie a tutti.
Ricevere un messaggio o rispondere a una telefonata che ne danno la devastante notizia, diventa sempre un suicidio di massa, dentro cui tutti noi uomini in divisa ci domandiamo perché è accaduto ancora una volta.
Io credo che le verità nascoste dentro questo bollettino di guerra, le conosciamo eccome, ma non è sempre facile parlarne quando qualcuno ci tappa la bocca.
Pensate che qualche luminare della prevenzione ha addirittura messo in piedi un osservatorio per monitorare gli allarmanti numeri che coinvolgono il fenomeno.
Si chiama ONSFO, uno strumento che "ai soli fini di ricerca, raccoglie tutte le informazioni raggiungibili dei singoli eventi suicidari nelle Forze dell'Ordine".
Peccato che le eventuali autorizzazioni di divulgazione, utilizzo o informazione riguardo ai dati sui suicidi, possono essere richieste al loro centro analisi, attraverso l’invio di una domanda all'indirizzo e-mail segreteria@cerchioblu.org che, udite udite, saranno valutate dal ricevente.
Qualsiasi azione supplementare successiva o altra azione intrapresa da terzi senza la loro autorizzazione scritta riguardo i dati dell'osservatorio sarà svincolata da qualsiasi responsabilità dell' "Associazione Cerchio Blu" e dei suoi analisti.
Torniamo al punto di partenza.
A partire da Gennaio del 2019, i suicidi registrati all'interno delle forze dell'ordine, sono stati 69; ieri sera a Torino, nei bagni della Questura, anche Peppino ha deciso di puntarsi la pistola in bocca e farla finita.
Brutale e impattante? Mi spiace, ma è così che bisogna raccontare una tragedia, con i colori scuri e freddi che la contornano.
Un'arma puntata dentro una bocca, sopra un cuore o appoggiata alla tempia.
Un grilletto e via, tutto diventa statistica e dispiacere bagnato da sangue e corpi martoriati nel fisico e offesi nell'animo.
Io lo chiamo il silenzio del non coraggio, ovvero il precludere la possibilità di chiedere aiuto per paura di essere giudicato.
Non potersi permettere di vivere un periodo emotivamente difficile, una situazione esistenziale particolare, una condizione sociale disastrata, un mobbing familiare.
Spesso queste tragedie sono addirittura frutto delle conseguenze di una notizia legata alla salute, di una delusione amorosa o di una separazione che quasi sempre lascia affogare i protagonisti meno tutelati in una condizione economica umiliante.
Sentire addosso la stanchezza di turni sfiancanti e logoranti, senza avere alcuna chance di recupero autorizzato.
La strada sfianca: che vi piaccia oppure no, fare il poliziotto non è come lavorare in catena di montaggio, ma sembra che quando ci permettiamo di dirlo, tutto il mondo ci viene contro.
- Ma che cazzo vi lamentate?
- Siete statali e a fine mese lo stipendio vi arriva sempre e comunque!
- Non fate un cazzo eppure vi pagano.
Leggete bene i numeri che racconta il web: ogni cinque anni avvengono all'incirca 300 suicidi nel comparto della sicurezza, e questo fenomeno è esponenzialmente triplicato.
Stiamo combattendo una guerra senza accorgercene, dove ad uccidere non è sempre chi spara.
Senza se e senza ma: è il caso di intervenire, oggi e non domani, per salvare i tanti colleghi seduti in qualche angolo del nostro Paese che hanno già messo il colpo in canna.
Si investa in prevenzione saggia, in colloquio trasparente, in libertà di espressione.
Vogliamo sentirci liberi di urlare che non siamo più ciò che eravamo all'inizio, quei Robocop indistruttibili senza timori di sorta.
Vogliamo premere un grilletto diverso da quello della nostra pistola d'ordinanza, un grilletto in plastica impugnato con un megafono assordante che amplifichi le difficoltà stravolgenti del nostro equilibrio.
Vogliamo gridare che siamo stanchi di dover vivere sempre a contatto con la croce senza mai godere della testa.
Qualcuno aiuti chi non ce la fa perché non siamo tutti bravi a riconoscere un pericolo inconscio.
Essere in possesso di un'arma è una grossa aggravante; non servono il coraggio di arrivare in cima a un condomino o l'irrazionalità di legare un cappio a un palo.
Con una Beretta in mano basta un secondo e tutto è...orrore!
Facile ritirare la pistola, le manette e il tesserino a chi trova il coraggio di riconoscersi debole; molto più difficile è lasciargli tutto ed intraprendere insieme a lui un percorso che porti alla resurrezione e non a morte certa.
Ieri sera un Questore a me caro, nel bel mezzo di un sano confronto telefonico a seguito della notizia di Peppino, mi ha salutato così:
"Ritengo sia un malessere socialmente diffuso.
Avere un’arma a disposizione può incoraggiare; è un fenomeno trasversale che riguarda individui che operano in diverse realtà lavorative e geografiche.
Avremmo bisogno di psicologi nelle Questure che possano intervenire senza ghettizzare il personale che potrebbe esternare il proprio malessere, senza timore di essere confinato tra i reietti.
Nessuno di noi è un superuomo: dovremmo essere aiutati senza provare vergogna."
Lascio in consegna a tutti queste parole, confidando nell'evoluzione del peso che hanno: si trasformino in fatti concreti, ora!
Quando un collega si toglie la vita, senza saperlo la toglie a tutti.
Grazie Commendatore e...buon viaggio anche a te, Peppino.
meraklidikos@gmail.com